mercoledì 5 agosto 2015

«Che volete?», disse, accennando a soffermarsi. «Nulla, soltanto ...» E, facendo forza a se stesso e richiamandosi alla mente il modo in cui in
genere agiscono tutti in situazioni simili, abbracciò Katjusa per la vita. Lei si fermò, e lo guardò negli occhi. «Non sta bene, Dmitrij Ivanovié, non sta bene», mormorò, arrossendo
fino alle lacrime; e con quella sua ruvida, forte mano, scansò il braccio che la teneva avvinta.
Nechljudov la lasciò, e sentì, per un attimo, non solo un impaccio, una vergogna, ma uno schifo di se stesso. Avrebbe dovuto credere a se stesso:
ma non aveva capito, allora, che quell'impaccio e quella vergogna erano i sentimenti più buoni della sua anima, che chiedevano di venire alla luce; al contrario gli era parso che fosse la stupidità a parlare in lui così, e che bisognasse fare ciò che tutti fanno. La rincorse un'altra volta, tornò ad abbracciarla, e la baciò sul collo. E questo bacio fu del tutto diverso da quei primi due baci: da quello, inconsapevole, dietro ai cespugli di lillà, e dall'altro della mattina alla chiesa.


In questo, c'era qualcosa di tremendo: e lei n'ebbe il senso. «Ma che fate?», proruppe con una voce, come se, irreparabilmente, lui avesse infranto un oggetto immensamente prezioso; e fuggì via di corsa. Lui entrò in sala da pranzo. Le zie in abito di gala, il dottore e la proprietaria confinante, stavano ritti intorno al tavolo degli antipasti. Tutto era talmente usuale, ma nell'anima di Nechljudov c'era una tempesta.

Non riusciva a intendere nulla di quanto gli dicevano, rispondeva a sproposito,
e non faceva che pensare a Katjusa, riandando di continuo alla
sensazione dell'ultimo bacio che le aveva dato, quando l'aveva raggiunta I
per il corridoio. A nient'altro che a questo riusciva a pensare. Quando
anche lei venne nella stanza, senza guardarla, con tutto l'essere la sentì
presente, e dovette fare uno sforzo su se stesso per non posare gli occhi
su lei.
terminato il pranzo, subito si ritirò in camera, e là, in preda a una
grande agitazione, a lungo continuò a camminare innanzi e indietro, tendendo
l'orecchio ai rumori della casa e aspettando sempre quel passo.
L'individuo animale che viveva in lui, non solo aveva ormai alzato la
testa, ma s'era messo sotto i piedi quell'individuo spirituale, che aveva
costituito il suo essere durante il primo soggiorno qui, e fino a quella mattina
in chiesa: e, ormai, questo tremendo individuo animale era il solo
dominatore della sua coscienza. Sebbene senza tregua si tenesse all
' agguato
di lei, non venne a capo neppure una volta, per tutta quella giornata,
d'incontrarla da solo a sola. Probabilmente, lei lo sfuggiva. Ma, verso
sera, accadde che si trovasse costretta a entrare in una camera attigua a
quella occupata da lui. Il dottore si fermava a pernottare, e Katjusa doveva
preparare il letto per l'ospite. Udendo quel passo, Nechljudov, camminando
leggero e rattenendo il respiro - come se s'accingesse a compiere
un delitto - entrò da lei.
Con le due mani infilate nella federa pulita, a sorreggere il cuscino per
le estremità, lei si voltò a guardarlo, e gli fece un sorriso; ma non era quel
lieto, esultante sorriso d'un tempo: era un sorriso spaventato, penoso. Fu
come se a lui quel sorriso dicesse che ciò che stava facendo era male. Un
momento, restò fermo. Ci sarebbe stata ancora, a questo punto, la possibilità
di lottare. Fievole, sì, ma percettibile pur sempre era la voce del suo

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