lunedì 3 agosto 2015

Resurrezione di Leone Tolstoj

affaticata, come dopo un pesante e gioioso lavoro, respirando a pieni polmoni e fissando lui proprio negli occhi coi suoi docili, innamorati
occhi verginali, che guardavano appena appena di sbieco. Nell'amore fra un uomo e una donna c'è sempre un momento, in cui il loro amore arriva allo zenit; un momento in cui non v'è in esso nulla di
consapevole, di riflessivo, e non v'è nulla di sensuale. Quella notte della Pasqua di Resurrezione era stata appunto, per Nechljudov, un momento simile. Mentre, ora, si veniva rievocando Katjusa, di tutte le situazioni in cui lei gli era apparsa, era questo il momento che ne offuscava ogni altro: quella nera, liscia, lucida testolina, quell'abito bianco, pieghettato, che verginalmente avvolgeva il busto eretto e il tenue seno, e quell'incarnato alle guance, e quei teneri, lucenti occhi neri, che la nottata insonne faceva guardare un pochino di sbieco, e quel duplice tratto fondamentale, che improntava tutto il suo essere: una purezza verginale d'amore, oltre che
per lui (questa, lui, la conosceva), anche per tutti gli uomini, per tutto quanto - bello o non bello - c'è a questo mondo, come per quel mendicante, con cui aveva scambiato il bacio. Che in lei ci fosse quest'amore, lui lo sapeva, perché, quella notte e quella mattina, lo aveva sentito in se stesso, e aveva sentito che, in questo amore, si fondeva con lei in qualcosa di unico. Ah, se tutto si fosse fermato a quel sentimento che c'era stato quella notte! «Sì, quella cosa orribile è avvenuta dopo, dopo quella notte della Pasqua di Resurrezione!», diceva ora tra sé, seduto presso la finestra della
stanza dei giurati.
XVI.
Di ritorno dalla chiesa, Nechljudov, insieme con le zie, aveva rotto il digiuno e, per rimettersi in forze, secondo un'abitudine presa al reggimento, aveva bevuto della vodka e del vino; poi s'era ritirato in camera sua, e subito; così vestito, s'era addormentato. Lo aveva svegliato un bussare all'uscio.  A quel modo di bussare, riconosciuto ch'era lei, s'era levato a mezzo, stropicciando si gli occhi e stirando le braccia. «Katjusa, sei tu? Entra», disse, e si rizzò. Lei aprì un pochino l'uscio. «Vi chiamano a tavola», disse. Aveva indosso sempre quell'abito bianco, ma non aveva più quel nastro
sui capelli. Guardandolo un istante negli occhi, s'era illuminata tutta, come se gli avesse comunicato chissà quale gioiosa novità. «Vengo subito», rispose lui, prendendo il pettine per ravviarsi i capelli.

Lei si trattenne un momento più del necessario. Lui se n'accorse, e, lasciando il pettine, le mosse incontro. Ma in quello stesso istante, rapida, lei si girò su se stessa e s'avviò, col passo come al solito leggero e rapido, lungo la guida del corridoio. «Che stupido», si disse Nechljudov: «perché non l'ho trattenuta?». E, di corsa, la raggiunse per il corridoio. Che cosa volesse da lei, nemmeno lui lo sapeva. Ma gli pareva che, quando era entrata in camera sua, avrebbe dovuto fare qualche cosa, qualche cosa che tutti in questi casi fanno, mentre lui non l'aveva fatto. «Katjusa, un minuto», le disse. Lei si voltò.

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